Parlare d'amore in mediazione

picture

31 Agosto 2015 - posted by Stella Morana

Se c'è una parola paradossalmente ostica in mediazione, una parola che la gran parte dei mediatori tendono a rifuggire, questa è la parola: "amore". È come se ci fosse una sorta di ritrosia, una qualche forma di pudore ad affrontare tale argomento di fronte a un uomo e una donna che, spesso, si presentano, invece, colmi di rancore, se non addirittura carichi di odio.

Tuttavia, anche se si può comprendere il naturale evitamento della coppia, che tenderà a non pronunciare questa parola, se non nelle coniugazioni che virano tra il passato e l'imperfetto ("ti ho amato", "ero innamorato", etc), non possiamo però comprendere la fatica del mediatore.

Crediamo, invece, che tale vocabolo non si possa davvero evitare, proprio perché lo studio del mediatore si presenta quale luogo deputato a cercare di risolvere i conflitti, le paure, le fatiche di un amore che si è perduto, spesso di un amore che, male gestito, ha generato quelle fatiche, quelle paure, quei conflitti che ora la coppia vorrebbe risolvere, pur a costo di separarsi.

Ma, si dirà: come si fa a parlare d'amore a due che si stanno separando? A due che, se va bene, spesso si disprezzano, quando non si odiano? A due che, se potessero, si cancellerebbero dalla faccia della loro reciproca storia, se non della storia tutta?

È, invece, soprattutto quando il conflitto è così acceso ed esasperato che diventa più che mai necessario parlare d'amore. Proprio a quella coppia così protesa all'odio è fondamentale fare capire che quel sentimento è il frutto di un amore pregresso e che loro, senza quell'amore, non esisterebbero nella loro noità: quel frammento di storia, breve o lunga che sia, che unisce nel "noi", due "io" separati ed è patrimonio delle loro identità. Proprio a loro è necessario fare presente che quello che sono ora, la loro collera, la loro delusione, possono esistere in questa forma solo perché prima si sono amati, e che diviene quindi indispensabile ripassare da quell'amore per andare oltre i suoi confini, senza correre il rischio di smarrirsi, perdendo ogni punto di riferimento.

La formula tanto cara alla Santa Romana Chiesa: "finché morte non vi separi", che sancisce il matrimonio come inseparabile vincolo, lungi dal dover essere letta come una sorta di costrizione che obbliga due infelicità coniugali a perpetrare i loro sadismi cercando di piacersi a tutti i costi, andrebbe invece interpretata per le sue indicazioni costruttive. Vale a dire: una volta che ci siamo amati, rispettati, una volta che le nostre vite si sono così avvicinate e mischiate, siamo contaminati per sempre: io non sono più solo io e tu non sei più solo tu. Ci apparteniamo perché ci siamo reciprocamente contagiati. Dunque possiamo separaci, possiamo dividerci e non vederci più per sempre, ma non possiamo negarci, perché sarebbe come negare un pezzo di noi e della nostra storia.

Se poi le coppie che lottano sulle ceneri del loro legame, sono anche genitori, la parola "amore" va usata con più determinazione e coraggio. La famiglia, nata proprio da quell'amore, può cambiare, può assumere fattezze diverse, può anche allargarsi includendo altre persone; tuttavia, di fatto, essa continuerà ad esistere, perché quel "noi" -che si vorrebbe istintivamente negare- seguiterà ad esistere; che lo si voglia o no, di esso vi sarà comunque traccia nel mondo.


Per questo il mediatore per primo deve mettere (rimettere) l'amore al centro di una relazione che i coniugi vorrebbero negare, ignari della possibilità che un nuovo amore, un "amore diverso" (separati o insieme, poco importa) sia la vera e sola soluzione al disagio che stanno vivendo.

-